Marcello Dominizi
“Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana”, scrive Simon Weil in uno dei suoi più famosi scritti sui diritti dell’uomo. Oggi potremmo dire che tutti hanno bisogno di appartenere a qualcosa, di avere una casa, un porto sicuro. Eppure, prima o poi, tutti facciamo l’esperienza dello sradicamento: qualche radice dell’albero della nostra vita viene tagliata da noi o da altri, non importa, ma ciò che importa è il senso di dolore e disorientamento che questo produce. Il detto africano che ho usato come titolo esprime una saggezza antica e spesso dimenticata: per quanto ci affanniamo a rimanere saldi, la condizione dell’uomo è quella di essere sradicato, se non altro dalla morte. L’autore antico della Lettera a Diogneto, parlando dei cristiani, scrive: I cristiani non si distinguono dal resto dell’umanità, né per sede, né per lingua, né per usanze. Non abitano in città particolari…non praticano un modo di vivere straordinario…Dimorano nei loro paesi, ma solo come ospiti temporanei…Per loro ogni paese straniero è patria e ogni patria è paese straniero.
Il cristiano ha imparato a riconoscere la propria fragilità di pellegrino su questa terra, un perenne sradicato in cerca di radici, perché ha fede nella risurrezione, nella certezza che questa esperienza terrena è solo una parte della vita. Questo lo rende realista, ma anche speranzoso: è un cittadino, ma cittadino del mondo. Sa che la propria patria è importante, ma è più importante il cammino di fede che sta facendo con l’intera umanità verso una Patria più grande e definitiva. In questa logica ha una famiglia di appartenenza, ma sente anche l’umanità intera come la propria famiglia. È in questo contesto che si comprende molto bene il comandamento della legge di Mosè nel libro del Levitico 19,34: “Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”. Curiosamente, il comando non fornisce una ragione religiosa, ma piuttosto esistenziale: anche voi siete stati stranieri, come a dire che la condizione di straniero, sradicato, è una fragilità che può colpire tutti gli uomini. Il cristianesimo, come del resto la legge di Mosè, riconosce dunque non solo un principio fondamentale della fede nel Dio di Abramo e di Gesù, ma anche dell’essere umano in quanto tale. In altre parole, si potrebbe dire che nel rifiutare di accogliere chi è sradicato non si viene meno a un comandamento, ma si viene meno alla propria umanità, si rinnega quel patto di giustizia che lega ogni persona a un altro essere umano.
San Luigi Palazzolo intendeva tutto questo in modo molto semplice: fare famiglia con i poveri, senza confini precisi, dove i poveri non sono coloro che hanno mancanza di beni, ma tutti coloro che si trovano in uno stato di fragilità o bisogno, di qualunque genere esso sia. È per questo che nella Casa Palazzolo di Torre Boldone cerchiamo di fare famiglia con tutti, in particolare con gli stranieri, con gli sradicati di questo mondo, con quei poveri che il Palazzolo ci chiede di considerare nostri figli, fratelli e sorelle. Lo facciamo nella comunità che accoglie minori stranieri non accompagnati, nei Centri diurni che accolgono bambini con disabilità cognitiva o con problemi di comportamento, negli appartamenti per la semi-autonomia di donne vittime di violenza e di giovani stranieri in cerca di integrazione e di un futuro sereno. In un mondo in cui si rischia di perdere i valori propri dell’umanità, anche i cristiani fanno fatica, a volte, a distinguere il vero dal falso, il bene dal male. È necessario ritrovare la propria umanità, la fede e il senso di cittadinanza globale, riconoscendo innanzitutto la propria fragilità per poter accogliere quella altrui e riconoscere nell’altro un compagno di viaggio. Allora lo straniero che accolgo diventa parte della mia famiglia, di quel popolo in cammino verso una sola Patria, e nel cammino anch’io non sarò più solo.