Suor Carla Fiori

 

Scampia 22 luglio 2024, ore 22.30: crolla un ballatoio della Vela Celeste. Il bilancio è di 3 morti, 13 feriti, di cui molti bambini, e 800 persone sfollate che non torneranno più nelle loro case. Come è possibile che alle Vele, dove abitano famiglie numerose, si continui a far vivere le persone in condizioni di vita malsane e pericolose?

Eppure, a distanza di 40 anni dalla costruzione di questi palazzi di cemento, non sono stati più effettuati controlli né interventi di manutenzione. Il degrado è stato tollerato, occultato e solo ora, dopo la morte di Roberto, 29 anni, Margherita, 35 anni, e Patrizia, 53 anni, ci si risveglia!

La gente dice: “Lo Stato ci ha abbandonato”, “non hanno mai fatto la manutenzione”, “hanno lasciato che rubassero gli ascensori”. Sembra incredibile, ma è proprio così: in realtà gli ascensori non ci sono, o meglio, ci sono gli ingressi delle porte, ma sono vuoti. Immaginate: dover portare la spesa, un passeggino, fino al 14° piano…

E purtroppo solo quando si verificano delle tragedie c’è un risveglio, ma questo non cancella le responsabilità. La domanda è lecita: cosa hanno fatto le istituzioni in tutti questi anni? Ora che la tragedia si è verificata e le persone non possono più rientrare nelle proprie abitazioni, le nuove case popolari che avrebbero dovuto essere pronte non ci sono. In tutta questa vicenda, di degrado e di tolleranza, non si sente mai parlare di responsabilità. La prima grande ingiustizia è proprio la mancanza di responsabilità: nessuno paga per questo disastro.

Le Vele sono state costruite negli anni ’60, in base alla legge 167 del 1962 che prevedeva la costruzione di case popolari. Un progetto ambizioso, quello dell’architetto Franz Di Salvo, che, ispirandosi alle costruzioni francesi, progettò una grande realtà abitativa in cui le famiglie potessero vivere come in una città in miniatura, riproducendo nell’architettura i vicoli della città di Napoli. Un progetto tradito fin dall’inizio, perché tutti gli spazi pensati per favorire la socializzazione non furono mai realizzati. La seconda grande ingiustizia è il tradimento di un progetto pensato per la gente.

Le Vele sono state ultimate nel 1975, ma senza la piazza, il parco verde, il viale alberato, lo spazio attrezzato per i bambini, i negozi, la ludoteca, gli impianti sportivi. Tutti i luoghi di incontro e di servizio non hanno mai visto la luce per mancanza di fondi. È rimasto solo ferro e cemento.

Quando sono arrivata a Scampia, ho iniziato a conoscere e frequentare diverse famiglie delle Vele. Ogni volta che entravo, restavo sempre molto colpita da queste strutture fatiscenti: passavo su quei ballatoi camminando un po’ in fretta, con la sensazione che da un momento all’altro potessero crollare. All’ingresso, spesso, incontravo dei giovani che correvano da una scala all’altra; erano piccoli spacciatori di droga e, al contempo, vittime di questa periferia senza opportunità.

È vero, le Vele nel tempo sono state luoghi di spaccio, di malavita e di tanto altro, ma ci sono anche persone e famiglie oneste che, pur nella fatica, vivono con dignità. In queste famiglie ho sempre trovato tanta accoglienza e la bella sorpresa di vedere famiglie giovani con diversi figli. Nonostante le difficili condizioni di vita, la precarietà del lavoro e la mancanza di risorse, qui alla vita ci si crede, e questo è la conferma che non è certo la posizione sociale o l’agiatezza a generare la vita, ma la profonda convinzione della ricchezza e della bellezza della famiglia, valore molto radicato nel popolo napoletano.

Condivido la determinazione dell’attuale giunta comunale, nel procedere in modo deciso alla chiusura delle Vele e nel cercare di ottenere un contributo economico per pagare un nuovo affitto.

Non possiamo però pensare che questo sia stato indolore: in un tempo breve di pochi mesi sono state sfrattate circa 300 famiglie, un migliaio di persone, con un impatto molto forte e un’organizzazione che a volte ha lasciato senza parole: un avviso, alcuni giorni di tempo e poi ti murano l’ingresso della casa.

Per le persone è stato molto difficile trovare casa e la chiusura delle Vele ha messo in luce alcune ipocrisie: le agenzie, ad esempio, chiedono una busta paga regolare per poter accedere a un affitto, ma qui il lavoro è quasi sempre in “nero” e tutti lo sanno, anche le Istituzioni, che però non effettuano controlli. Questa è la terza ingiustizia: oltre a non avere più una casa, si viene anche discriminati nella ricerca di un lavoro.

A questo punto viene spontaneo chiedersi se abbattere le Vele sia sufficiente per ridare un futuro a questa periferia. Penso proprio di no.

Sul territorio operano da molti anni alcune associazioni che si dedicano a vari settori e che sono una risorsa importante per questo territorio. Tuttavia, tutto ciò non basta. Per restituire fiducia e futuro a questa realtà, è necessaria una presenza concreta dello Stato: servono lavoro, servizi sanitari più accessibili, centri di riabilitazione e sostegno alla disabilità, più scuole, insegnanti di sostegno e tanto altro.

Serve soprattutto una maggiore attenzione alle periferie, ai bambini, ai ragazzi e ai giovani. Abbiamo il dovere di garantire loro un futuro, perché saranno gli adulti e le famiglie di domani.