Don Luciano Tengattini

L’esperienza di Chiesa nel carcere di Bergamo, che svolgo da quattro anni e mezzo dopo la morte di don Fausto Resmini, è un dono che condivido con don Dario Acquaroli, due diaconi (don Valentino e don Bruno), le suore delle Poverelle che risiedono come comunità all’interno della sezione femminile e un gruppo di volontari che svolgono un servizio prezioso.

Sfogliando il Catechismo della Chiesa Cattolica, leggo che la giustizia è la virtù che consiste nella ferma e costante volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che gli è dovuto. Ma cosa gli è dovuto?

“Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20). Il Vangelo ci dice che Cristo non è venuto ad abolire la Legge che Dio ha offerto al suo popolo sul monte Sinai. La Legge di Dio conserva ogni validità ed è eterna; tuttavia, essa deve essere considerata non come un insieme di prescrizioni giuridiche ed esterne, ma come l’espressione concreta di una totale accettazione di Dio.

Parlare di giustizia mi risulta difficile perché non ho sempre le idee chiare: non c’è bianco o nero, e a volte è il grigio che accompagna le nostre scelte. Il mondo della giustizia è, a mio avviso, molto complicato, spesso perché lo vogliamo noi, altre volte perché le situazioni che si presentano sono davvero difficili da gestire. Percorrendo i corridoi del carcere, mi ritrovo spesso a riflettere sul tema della giustizia. Le mie riflessioni si perdono tra le persone che mi chiedono qualcosa e i pensieri che vagano altrove.  Spesso raccolgo lacrime per gli errori commessi, per i sensi di colpa che scavano nel profondo senza lasciare vie di scampo. Un detenuto mi confessava: “La vera condanna, don, non è il tempo che dovrò trascorrere qui, ma ciò che sento sempre nella mia coscienza, giorno e notte… Dio mi aiuti”. Mi ritornano alla mente le parole di don Fausto: “Che sia innocente o colpevole, a me è affidato un uomo. E in nome del Vangelo mi trovo faccia a faccia con un uomo. Indipendentemente da come è dipinto dalla stampa, da come è visto dal magistrato, da come è trattato dall’amministrazione carceraria, da come finirà quest’indagine. Ora, a quest’uomo, il più indesiderato e scomodo, io devo dare ascolto, anche sfidando il pregiudizio”.

La giustizia umana prosegue il suo corso tra processi, Camere di Consiglio, interrogatori, burocrazie spesso lente, incontri con avvocati e magistrati, ma l’uomo è alla ricerca soprattutto di volti compassionevoli che lo accompagnino nel suo cammino. Sì, penso che la giustizia di questo mondo debba camminare conoscendo e riscoprendo l’altro. Il vero coraggio è di chi si prende a cuore le situazioni che incontra; il Vangelo ci parla di compassione che non scusa gli errori, ma offre nuove possibilità.

Rosario Livatino, il giovane magistrato ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e beatificato il 9 maggio 2021, martire della Fede e della Giustizia, andava in segreto nel carcere di Agrigento. Incontrava i detenuti, anche quelli che aveva condannato, e senza clamore aiutava economicamente le famiglie in difficoltà. Per lui erano persone, da trattare con dignità.

Nel 1986 scriveva: “La giustizia è necessaria, ma non sufficiente e può e deve essere superata dalla legge della carità, che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio”.

Nel 1998, il cardinale Martini scriveva ai detenuti di San Vittore per ringraziarli della lettera inviata al Papa: «Che cosa augurarvi per il Natale? Ci sono due auguri che sembrano equivalersi: quello della libertà, che ciascuno desidera, e l’augurio della dignità, della dignità di uomo, di cittadino, di persona di fede e di speranza. Quale dei due regali o doni è più importante? Pur essendo entrambi importanti, la dignità viene certamente prima, perché può essere vissuta subito, mentre la libertà richiede i suoi tempi. L’augurio è dunque che questa dignità vi sia donata nel cuore e nella vita fin da subito, che vi permetta di imboccare una via di risurrezione, di riscatto, di verità e di autenticità”».

Giustizia e dignità umana devono camminare insieme anche nelle nostre carceri, affinché il detenuto possa scontare la sua pena con la garanzia di uno Stato che rispetta fino in fondo la dignità di ogni persona, anche quella del detenuto.

Per concludere, vorrei riportare le parole di Papa Francesco contenute nella bolla di indizione dell’anno giubilare al punto numero dieci:

Nell’Anno giubilare saremo chiamati a essere segni tangibili di speranza per tanti nostri fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privati della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in molti casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai governi che, nell’Anno del Giubileo, si assumano iniziative che restituiscano speranza, come forme di amnistia o di condono della pena volte a restituire fiducia in sé stessi e nella società, o percorsi di reinserimento nella comunità che prevedano un concreto impegno nell’osservanza delle leggi.

È un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e che perdura con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» (Lv 25,10). Quanto stabilito dalla Legge mosaica è ripreso dal profeta Isaia: «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2).